L'ALTRA FACCIA DELL'EMIGRAZIONE

20.10.2017 16:32

Emigrazione…

La mente sfoglia fotografie ingiallite, ritratti di folle ammassate sulle banchine di vecchie stazioni, fagotti ingombranti tenuti sottobraccio. File di persone in attesa di controlli umilianti, una vita rinchiusa in valigie di cartone legate con lo spago, sguardi carichi di speranza e, per molti, la paura del rimpatrio. Immagini di piroscafi che salpano con un carico umano sopraffatto dalle incognite di attraversate inenarrabili. Uomini, donne, bambini, imbarcati in viaggi della speranza o della disperazione, dove sentimenti come la nostalgia e la meraviglia ben presto ed inesorabilmente si disperdono nel cielo, al suono lamentoso delle sirene, dissolvendosi col vapore nero dei fumaioli.

Passeggeri in balia del mal di mare, del timore dei naufragi, vittime degli abusi da parte degli equipaggi. Anime di qualunque età, obbligate talvolta a sbarcare in un paese diverso da quello tanto sospirato, vedendosi, così, negare la possibilità di coltivare un sogno, costrette, piuttosto, a scontrarsi con l’incubo della fame e della povertà.

Emigrazione, tuttavia, non è stato solo questo.

Il fenomeno migratorio del secolo scorso presenta fortunatamente una seconda faccia, dalle tinte decisamente più chiare, che ne riscatta l'immagine cupa e drammatica, valorizzando gli aspetti e soprattutto gli effetti positivi dei flussi umani che, in decenni di storia, hanno reso possibile una ripresa economica in molte regioni del nostro continente. Una rinascita spesso lenta e faticosa, ma che ha significato, per tanti individui e molte famiglie, la realizzazione di un grande sogno.

È il caso di Renzo Uber, gardoloto, classe 1929, che nel lontano 1954 lascia il Trentino per la Svizzera, dove incontra la futura moglie Valeria, feltrina, che lo ha preceduto, emigrando oltralpe da Milano. A Zurigo prima, e nella città di Uster poi, costruiranno insieme la loro nuova vita, tra qualche difficoltà e molte soddisfazioni.

Dario, loro nipote e nostro vicepresidente, mi accompagna a Gardolo, nella casa in cui vivono da ormai oltre vent’anni.

Nel momento in cui ci accolgono, lo sguardo luminoso di Renzo ci fa intuire  la gran voglia di ripercorrere le tappe del suo passato.

Gli chiedo, dunque, di iniziare dalle sue origini, qui, a due passi dal capoluogo.

R: La mia era una famiglia di contadini. Avevo frequentato le ITI, ma senza poter concludere gli studi a causa della guerra. Poi lasciai  Gardolo una prima volta  per  il servizio di leva: tre anni in Marina mi diedero la possibilità di conoscere altri Paesi e molte persone. Rientrato a casa, per un po’ aiutai mio padre, contadino, nei lavori in campagna, maturando però la decisione di lasciare l’Italia, considerando la precarietà del lavoro e l’incertezza del futuro.

D: Perché proprio la Svizzera?

R: La scelta fu praticamente casuale. Una sera, un conoscente che lavorava vicino alla stazione di Trento e che aveva contatti in Svizzera, mi consigliò di partire, assicurandomi che lì avrei trovato subito un lavoro. E così fu.

Arrivato a Zurigo,  in pochi giorni fui assunto come portiere in un albergo, rimanendoci un paio d’anni.

D: Quindi l’impatto fu buono...

R: Mi andò bene, considerando che i trentini erano spesso collocati nel settore alberghiero, ma non come camerieri, ruolo troppo “in alto”, bensì come lavapiatti o, comunque, destinati a lavori più umili.

Due anni dopo cambiai lavoro. Imparai a programmare trame di tessuti in una fabbrica non molto lontano da Zurigo dove rimasi altri due anni, fino a quando, grazie alle mie conoscenze di meccanica apprese alle ITI, fui assunto in un’azienda meccanica  ad alta tecnologia, specializzata nella fabbricazione di utensili di precisione, allora molto richiesti. Un lavoro, questo, che in ventisette anni mi diede molte soddisfazioni.

D: Che rapporto aveva con gli altri trentini emigrati in Svizzera?

R: Nei giorni liberi mi piaceva girare per conoscere i nostri corregionali sparsi negli altri Cantoni e davo volentieri una mano per sbrigare pratiche o nel compilare il formulario delle tasse. Problemi ce n’erano tanti e di varia natura. Fortunatamente potevamo contare sull’aiuto di validi collaboratori.

D: C’era, nei trentini che incontrava, la voglia di fare comunità nel Paese che li aveva accolti?

R: Certo. Svariate erano le iniziative volte a promuovere gli incontri tra connazionali. Tutte cose che favorirono il nostro rapporto con le Istituzioni. Nel 1972 ad Uster, dove abitavamo, mi feci promotore assieme ad altri del “Circolo culturale italiano” locale. Ci misero a disposizione una casetta che, nel giro di una settimana, grazie all’aiuto di volontari, era arredata e operativa. Ci permisero addirittura di aprire il bar e così divenne un importante punto di ritrovo per molti immigrati.

D: Quanti trentini emigrarono in Svizzera?

R: A metà degli anni Settanta si registrarono 8150 oriundi trentini nell’intera Confederazione Elvetica. I primi erano arrivati agli inizi del Novecento, ma il  boom fu negli anni ’60. Facemmo un censimento, molto lungo e impegnativo, fortunatamente sostenuto in maniera concreta dai comuni, dal Consolato, dall’Ambasciata e dalle missioni cattoliche.

D: Quali furono gli effetti del vostro censimento sulle comunità trentine e sulla popolazione locale?

R: Diciamo che l’emigrante in sé era ben accetto come forza lavoro, ma guardato con diffidenza dall’uomo della strada. Tuttavia,  il fatto di esserci censiti e riconosciuti come etnia specifica, anche attraverso una formula associativa, ci diede modo di avvicinare la popolazione che un po’ alla volta prese a guardarci con simpatia ed interesse per quanto facevamo. Riuscivamo addirittura a farci dare dai negozi merce di ogni tipo da usare come premio per le lotterie. E sa perché ce la davano? Perché li minacciavamo di non andare più a far la spesa da loro!

Ride, il signor Uber, con una risata fanciullesca e gli occhi che si illuminano a snocciolare  ricordi…

D: Che rapporto avevano gli immigrati con il Trentino?

R: La volontà di mantenere i legami era forte ed era importante anche per una ragione economica. Le difficoltà non mancavano e pur vivendo abbastanza bene, non era tutto rose e fiori. La Provincia di Trento rimborsava le spese sostenute per le nostre adunanze e per i regali ai bambini in occasione dell’Epifania. Ricordo che ogni anno, in occasione della consulta, veniva in Svizzera Domenico Fedel, allora consigliere, incaricato dalla Provincia di  verificare lo stato della comunità trentina.

Nel 1969, poiché per gli immigrati trentini in Svizzera era forte il bisogno di mantenere un contatto con la propria terra d’origine,  s’istituì l’ “Unione famiglie trentine all’estero”, una realtà che diede modo di rafforzare la collaborazione con le istituzioni e che fu presa come modello anche da altre regioni. Per alcuni anni, tra l’altro, ne feci parte come membro del Consiglio direttivo, mentre ora proseguo l’impegno come socio e probiviro.

D: Com’era uno stipendio medio in rapporto al costo della vita?

R: Lo stipendio medio lordo era molto buono,  ma non sufficientemente alto in considerazione del costo degli affitti e di altre spese, come ad esempio la cassa malati obbligatoria (l'assistenza sanitaria era privata). Senza contare che si doveva versare all'Italia la “rimessa degli emigrati”.

D: Lei ritiene che la Svizzera debba  essere riconoscente agli immigrati trentini e, più in generale, a quelli italiani?

R: Gli immigrati italiani sono quelli che hanno fatto la nuova Svizzera, un Paese che prima basava la propria economia sull'agricoltura e che con l'avvento dell'emigrazione dall'Europa, grazie alla manodopera entrante, ha potuto avviare e incrementare lo sviluppo industriale. I lombardi erano esperti in meccanica, i veneti erano soprattutto gessini e muratori, i trentini erano impegnati specialmente nel settore secondario, quello alberghiero in particolar modo. Sì, direi proprio che se, da una parte,  la Svizzera ci ha aiutato dandoci la possibilità di lavorare, dall’altra,  per quello che è diventata e per come è cresciuta,  può essere riconoscente anche a noi trentini.

D: In quale momento e per quale motivo ritornò a Gardolo?

R: Nel 1990 andai in pensione. Negli anni precedenti,  oltre che con gli immigrati, mi ero impegnato in altre attività. Membro del Consiglio Pastorale della Missione cattolica, avevo anche ricevuto l’incarico di Presidente della Colonia libera italiana del Cantone di Zurigo. Insomma, mi ero inserito molto bene nella comunità locale. Tuttavia, si sa, il richiamo alla terra natìa può  essere forte per chi emigra.

Così siamo tornati, ci siamo fatti la casa a Gardolo e da qui, guardando la televisione svizzera, ancora oggi continuiamo a seguire le  vicende di questa terra. Ma non ho mai scordato i tanti trentini conosciuti lì e che porto ancora nel cuore.

D: Insomma tanto lavoro e altrettante soddisfazioni…

R: Sicuramente. E per l’impegno a favore degli immigrati, nel 1984 ho ottenuto il  titolo di Cavaliere della Repubblica. Tra le tante soddisfazioni,  anche la possibilità di girare il mondo, per incontrare altre comunità trentine, ma anche per il puro piacere di viaggiare.

Alzandosi dal divano, Renzo si dirige verso una vetrina che custodisce la collezione di minerali, per i quali ha una vera e propria passione. Estrae  due piccole pietre e torna a sedersi. Mi mostra quella bianca, muovendola con le dita.

R: Vede, questa è una “pietra di luna” e viene dall’India. Comunque la si giri, emette luce. Quest’altra invece si chiama “pietra di sole” e viene dalla Norvegia.

La prima, secondo una credenza popolare, veniva usata dagli antichi per catturare l'energia lunare ed offre particolari e suggestivi giochi di luce. Pare richiami l’energia materna, la tranquillità del grembo, procurando calma, pace , equilibrio. La pietra di sole, invece, dovrebbe incoraggiare una visione ottimistica della vita.

Prima di salutarci, ricevo in  omaggio il souvenir di un viaggio in Indonesia, il guscio  porcellanoso e lucido di una ciprea, mollusco che, a seconda della latitudine, viene associato all’immortalità,  alla luna e all’elemento femminile, per scongiurare l’infertilità e le difficoltà del parto.

Che dire? Sorrido, felice e un po’ divertita per questo dono inaspettato e, nel congedarmi, porto con me  l’entusiasmo del signor Uber e la sua gioia nel trasmettere ricordi che gli illuminano gli occhi. Non so se la pietra di luna contribuisca a creare questo effetto. Di sicuro sarebbe bello ed auspicabile, penso allontanandomi,  che i giovani immigrati residenti nel nostro Trentino, potessero un giorno  raccontare a qualcuno la propria  vita con lo sguardo carico della stessa luce. 

 

        DANIELA CARLONI